di Giancarlo Di Gennaro, Vincenzo Esposito, Mario Manfredi e Pierpaolo Quarato
L’epilessia è tra le patologie neurologiche a più elevata prevalenza nei paesi industrializzati, valutata tra il 6 e il 10 per mille.
L’epilessia parziale è caratterizzata da una improvvisa disfunzione di una parte del cervello (la “crisi epilettica”) che dipende da un’anomala scarica elettrica che si produce inizialmente in una zona limitata del tessuto nervoso (area epilettogena). Le crisi si ripetono con frequenza variabile in ciascun paziente e si possono manifestare con movimenti abnormi, alterazione delle sensazioni e, molto spesso, con perdita della coscienza, caduta a terra e convulsioni. Il momento di esordio delle crisi non è prevedibile e i soggetti che ne soffrono vivono spesso nell’attesa del successivo attacco, esclusi dalle molte attività che determinano un potenziale rischio (guida di veicoli, alcuni sport, alcune attività lavorative, ecc.). Inoltre, il ripetersi negli anni delle crisi, dei traumi ad esse conseguenti e il pesante carico farmacologico, possono provocare nuovi danni al cervello e favorire l’instaurarsi o l’aggravarsi di deficit cognitivi e dell’apprendimento, soprattutto nel bambino.
Non tutti i pazienti con epilessia risentono positivamente delle terapie farmacologiche e, su un totale di circa 400.000 pazienti con epilessia in Italia, almeno 100.000 sono sofferenti di forme di epilessia parziale “resistente” alla terapia medica (vedi nel sito anche la voce “Le epilessie resistenti”). Tali epilessie “resistenti” al trattamento farmacologico costituiscono una patologia fonte di gravi disagi per i malati, per le loro famiglie e per la società, che devolve ingenti risorse economiche per loro assistenza. Un recente studio italiano multicentrico (I costi dell’epilessia infantile in Italia: esame comparativo di tre differenti ambienti sanitari, Epilepsia 42: 641, 2001) ha valutato in circa 3.300 €/anno il costo medio di un paziente con epilessia resistente, con i casi più gravi che raggiungono costi di molto superiori a tale cifra. Nell’adulto, il costo per i pazienti farmaco-resistenti è di 2.190 €/anno, e sale a 3619 €/anno per i casi più impegnativi (Epilepsia 45: 171, 2004).
Le “epilessie resistenti” possono oggi giovarsi di metodiche diagnostiche sofisticate che rendono spesso possibile individuare la regione cerebrale da cui origina la scarica epilettica, così da poterla rimuovere con un intervento neurochirurgico. Si calcola che non meno di 20.000 pazienti siano attualmente in Italia i possibili candidati per una soluzione chirurgica della loro epilessia altrimenti intrattabile.
Obiettivo assistenziale primario è la selezione, tra i pazienti affetti da epilessia parziale, dei candidati a un intervento chirurgico di resezione dell’area corticale cerebrale sede dell’origine della scarica elettrica critica, mirando alla guarigione dalla malattia ed alla definitiva sospensione della terapia farmacologica.
Lo studio prechirurgico, finalizzato all’identificazione della regione cerebrale responsabile delle crisi, si compone di un iter diagnostico complesso, organizzato in tappe successive, attraverso più ricoveri ospedalieri, in parte “personalizzato” secondo le necessità del singolo caso clinico, che si avvale di competenze iperspecialistiche nell’ambito della neurologia, neurochirurgia, neurofisiologia, neuroradiologia, neuropsicologia, psichiatria e neuropatologia. Solo l’integrazione tra tali differenti competenze può realizzare il pieno raggiungimento delle finalità del progetto, tanto nei suoi aspetti di diagnosi e cura, quanto in quelli più propriamente diretti all’approfondimento delle conoscenze scientifiche.
La terapia chirurgica dell’epilessia riguarda perciò, con le poche eccezioni che verranno discusse, le epilessie parziali farmaco resistenti, soprattutto del lobo temporale.
La metodologia di studio prechirurgico utilizzata dal nostro gruppo comporta differenti tappe, la cui scelta e organizzazione sequenziale è in funzione delle caratteristiche anatomo-elettro-cliniche proprie di ciascun malato. I pazienti sono ammessi a un primo ricovero in ambiente neurologico, per eseguire le seguenti procedure: valutazione anamnestica ed elettro-clinica, esame neuropsicologico, esame psichiatrico, indagini neuroradiologiche dell’encefalo, morfologiche (TC e Risonanza Magnetica – RM) e funzionali (RM funzionale, RM spettroscopica) e indagini elettrofisiologiche. Cardine dello studio “non invasivo” è la monitorizzazione Video-EEG prolungata. Il ricovero relativo all’insieme delle indagini non-invasive ha durata durata media di 6-7 giorni.
Il nostro Centro dispone di sei postazioni per la monitorizzazione Video-EEG con apparecchiature dedicate, La video-EEG è caratterizzata dalla registrazione sincronizzata del segnale EEG acquisito con sistema digitale, e del segnale video acquisito con una o più telecamere. La registrazione mira a documentare le modificazioni dell’EEG e le manifestazioni cliniche che avvengono in occasione delle crisi. I pazienti sono registrati per 24 ore giornaliere e per 7 giorni/settimanali in regime di riduzione dei farmaci antiepilettici, al fine di facilitare l’insorgenza degli episodi critici. Questo impone l’assenza di giorni di riposo, in quanto i pazienti sono a rischio di frequenti crisi. Lo studio necessita della presenza continua di personale tecnico e medico presso le postazioni.
Lo studio prechirurgico prevede anche l’esecuzione di una valutazione neuropsicologica e psichiatrica al fine di valutare disfunzioni cognitive e controindicazioni psicopatologiche
Di fondamentale importanza è lo studio neuroradiologico: tutti i pazienti in studio eseguono un esame di RM cerebrale, integrato in casi selezionati, da una TC e dagli studi funzionali. Sulla base dei dati ottenuti dalle indagini non-invasive si formulano le ipotesi circa la zona epilettogena responsabile delle crisi. Se la convergenza dei dati clinici, elettroencefalografici e neuroradiologici mostra con ragionevole certezza di avere individuato l’area corticale responsabile delle crisi si può procedere alla sua ablazione chirurgica, rispettando i limiti imposti dalle “aree eloquenti”.
La nostra esperienza e i dati di letteratura consentono di valutare che, sul totale dei candidati, circa il 40-50% dei pazienti può essere inviato, con il solo ausilio delle indagini “non-invasive”, all’intervento chirurgico. Questo avviene con maggiore frequenza per le epilessie del lobo temporale.
Nei casi in cui non è possibile definire l’area epilettogena con le metodiche “non-invasive”, occorre la realizzazione di indagini ulteriori, a carattere “invasivo”, che secondo il nostro approccio può realizzarsi attraverso: a) impianto di elettrodi intracerebrali per via stereotassica/stereoscopica; b) impianto di elettrodi subdurali (“grid” e “strip”).
a) Impianto di elettrodi intracerebrali. La strategia d’impianto degli elettrodi intracerebrali si attua sulla base degli esami “non-invasivi” già condotti, e soprattutto sulle indicazioni della Video-EEG. La metodica è estremamente sofisticata, e necessita di una sala chirurgica dedicata che permette l’acquisizione delle coordinate radiologiche in condizioni stereotassiche e stereoscopiche in modo da consentire la ricostruzione tridimensionale dello spazio endocranico e in particolare delle strutture corticali cerebrali e dei vasi. Gli elettrodi devono raggiungere le zone del cervello più sospette, e la strategia di impianto deve tenere conto della posizione nello spazio endocranico della corteccia da investigare e del decorso dei vasi arteriosi e venosi, che devono essere evitati e non devono quindi trovarsi nel percorso degli elettrodi. È necessario praticare fori nella teca cranica, attraverso i quali vengono introdotti gli elettrodi, che dopo avere attraversato varie strutture cerebrali raggiungono la zona bersaglio. Gli elettrodi sono molto sottili e il danno arrecato al tessuto cerebrale è minimo.
b) Impianto di elettrodi subdurali. Come nel caso degli elettrodi intracerebrali, gli elettrodi subdurali vengono applicati sulla base delle indicazioni derivanti dallo studio non invasivo. L’inserimento degli elettrodi necessita l’apertura della teca cranica, ma gli elettrodi vengono posizionati sulla superficie dell’encefalo, che non viene in alcun modo leso. Gli elettrodi sono disposti in modo geometrico e contenuti in una striscia di materiale morbido, che si adatta alla superficie cerebrale. La esatta disposizione dei contatti rispetto alla corteccia da esplorare viene ricostruita partendo dai dati neuroradiologici (TC e RMN volumetrica preoperatorie, TC postoperatoria) integrati da metodiche computerizzate per la fusione delle immagini.
Gli elettrodi subdurali svolgono un’altra importante funzione oltre a quella di localizzare la zona di origine delle crisi. Quando l’intervento chirurgico può interessare o si avvicina ad aree cerebrali coinvolte nel controllo di funzioni essenziali che non possono essere effettuate o compensate da altre zone del cervello (le cosiddette aree “eloquenti” per i movimenti, la sensibilità o il linguaggio), la stimolazione elettrica della corteccia sottostante agli elettrodi consente di mappare in maniera precisa la distribuzione delle funzioni cerebrali, fornendo al chirurgo i limiti non valicabili nell’intervento di ablazione corticale.
I dati della stimolazione elettrica, integrati dalle metodiche di RM funzionale, hanno sostituito il Test di Wada. Esso consiste in una procedura semi-invasiva che prevede la incannulazione di una carotide e la somministrazione intracerebrale di un farmaco barbiturico a breve emivita. Il barbiturico “blocca” per pochi minuti un intero emisfero cerebrale e consente di identificare l’emisfero dominante per il linguaggio. La stimolazione cerebrale con gli elettrodi subdurali fornisce informazioni più dettagliate, che riguardano anche movimento e sensibilità, senza l’uso di farmaci.
Le strategie e tecniche chirurgiche adottate per il trattamento delle epilessie parziali farmacoresistenti sono molteplici. Gli elementi determinanti la scelta del tipo di trattamento sono: a) la localizzazione e le funzioni dell’area epilettogena, b) l’estensione delle aree corticali e dei circuiti secondariamente coinvolti dalla scarica epilettogena, e c) la natura dell’eventuale lesione anatomica responsabile della epilessia.
L’intervento chirurgico ideale ha come obiettivo l’asportazione della lesione, la rimozione totale dell’area epilettogena, la disattivazione delle aree e dei circuiti coinvolti dalla crisi e il rispetto delle aree “eloquenti”, in modo da estinguere la fonte e la diffusione dei fenomeni epilettici senza interferire con le funzioni cerebrali. Un risultato del genere significa per il paziente guarigione totale delle crisi, interruzione della terapia farmacologica, riconquista di una esistenza normale: nessun’altra strategia terapeutica consente al momento attuale questo risultato. Non sempre ciò è possibile: l’area epilettogena può interessare aree eloquenti, può essere molto estesa, multipla o bilaterale. Non è detto che si debba in questi casi rinunciare a ottenere benefici mediante l’intervento chirurgico: le possibili categorie di intervento chirurgico per il trattamento di una sindrome epilettica sono infatti, oltre alla chirurgia “curativa”, una chirurgia “palliativa”.
La chirurgia “curativa” mira alla rimozione completa della corteccia da cui ha origine la scarica neuronale ipersincrona responsabile delle crisi (“cortectomia” dell’area epilettogena). Le cortectomie presuppongono una definizione dell’estensione dell’area epilettogena quanto più accurata possibile. L’estensione della demolizione corticale è condizionata dalla morfologia della eventuale lesione anatomica (tumori, anomalie della girazione corticale, ecc.), che solo in una ridotta percentuale dei casi coincide perfettamente con l’area epilettogena. Nelle epilessie del lobo temporale gli interventi possono consistere in una resezione focale personalizzata, ma spesso si può ricorrere a una lobectomia temporale standardizzata. Gli interventi standardizzati vanno dai meno demolitivi come l’amigdaloippocampectomia selettiva, a quelli più estesi, che prevedono l’ablazione di strutture temporali sia neocorticali sia mesiali. Nelle epilessie extratemporali, uni o multilobare, non è possibile, per le caratteristiche anatomiche degli altri lobi cerebrali, eseguire interventi standardizzati, e a parte i casi in cui si esegue un intervento di pura lesionectomia, è quindi necessario delimitare caso per caso e con precisione l’estensione dell’area epilettogena attraverso procedure “invasive”. Dopo l’intervento curativo il paziente mantiene la terapia anticomiziale, che potrà essere ridotta solo dopo 18-24 mesi di “follow-up” privo di crisi. Tutti i pazienti vanno sottoposti a controlli clinici e strumentali “standardizzati” (esame clinico, neuropsicologico e psichiatrico, EEG, RMN ecc.), e vengono rivisti a 1, 6, 12, 24 e 60 mesi dall’intervento, con visite ambulatoriali o brevi ricoveri in neurologia, per la valutazione dei risultati e per le modifiche terapeutiche.
La chirurgia “palliativa” non si pone l’obiettivo della completa guarigione del paziente, ma solo un miglioramento clinico. Questa soluzione può essere prospettata in casi di epilessie molto gravi, con manifestazioni cliniche particolarmente rischiose o invalidanti, per esempio crisi con perdita di coscienza subitanea e non preavvertita e con caduta in terra violenta e traumatica. Si tratta spesso di epilessie multilobari, con area epilettogena molto vasta o multifocali. I principali interventi palliativi sono la callosotomia, le resezioni subpiali, l’emisferectomia e la stimolazione del nervo vago.
La callosotomia consiste nella sezione, parziale, subtotale o totale del corpo calloso, la principale struttura commissurale che mette in comunicazione i due emisferi, costituita da un spesso ed esteso fascio di fibre posto al centro del cervello. Si prefigge di evitare la propagazione della scarica epilettogena da un emisfero all’altro impedendo il rapido coinvolgimento dell’intera corteccia e la caduta a terra del paziente. Vi sono conseguenze sulla attività cognitiva, e l’intervento è proponibile solo in pazienti con deficit intellettivi secondari a encefalopatie epilettogene con crisi incontrollabili e continue cadute, costretti a vivere con un casco protettivo, limitati nei loro spostamenti anche domestici e che continuano a peggiorare per i danni traumatici.
Le transezioni subpiali multiple secondo Morrel, consistono nell’interruzione delle vie cortico-corticali di propagazione della scarica, a livello delle fibre parallele della corteccia cerebrale. Questa tecnica si realizza nei casi in cui l’area epilettogena è parte di una regione funzionale non rimovibile (aree del linguaggio, aree motorie ecc.) e come complemento di un intervento di cortectomia estesa sino ai limiti consentiti.
L’emisferectomia consiste nella rimozione di un intero emisfero, e si effettua in epilessie gravissime con decine o centinaia di crisi al giorno, in cui la scarica insorge da un solo lato del cervello ma minaccia, con la continua propagazione dell’attività epilettogena, il funzionamento dell’intero cervello. Alla rimozione effettiva si preferisce oggi l’isolamento di un emisfero mediante sezione delle connessioni (emisferectomia funzionale) per evitare versamenti emorragici nella cavità residua. Può essere proposta solo in bambini nei primi anni di vita (al massimo fino a 10 anni, ma preferibilmente assai prima), poiché il cervello infantile conserva una grande plasticità e l’emisfero residuo riesce a vicariare in maniera sorprendente le funzioni di quello rimosso. Le più frequenti patologie patologie che rendono opportuno questo intervento sono la sindrome di Sturge-Weber e la encefalite di Rasmussen.
La stimolazione del nervo vago è una metodica di recente introduzione. Si avvale di uno stimolatore elettrico che viene impiantato sotto la cute della regione alta del torace, sotto la clavicola. Lo stimolatore viene connesso attraverso fili sottocutanei con il nervo vago di sinistra, che decorre nella parte laterale del collo. Vengono erogati impulsi elettrici programmabili che attivano i nuclei centrali connessi al nervo, provocando liberazione di neurotrasmettitori inibitori nel sistema nervoso centrale (l’esatto meccanismo di azione in verità non è ancora del tutto chiaro). Nei pazienti con epilessia parziale resistente alle terapie farmacologiche e nei quali è controindicata la chirurgia “curativa”, la stimolazione vagale può ridurre il numero delle crisi, in media del 40-50%. Il nervo vago innerva il cuore, e la stimolazione genera effetti collaterali cardiaci (rallentamento della frequenza del battito del cuore; la scelta del vago di sinistra è proprio determinata dal minor numero di fibre nervose dirette al cuore rispetto al vago di destra) e respiratori (aumento delle apnee notturne).
Callosotomia, transezioni subpiali, emisferectomia e stimolazione vagale costituiscono comunque una piccola parte degli interventi per la cura dell’epilessia, e non raggiungono insieme il 5% del totale. Sono in corso di studio, sulla scia degli interventi di “neuromodulazione” utilizzati con successo nella terapia della malattia di Parkinson, interventi di stimolazione delle strutture cerebrali profonde mediante elettrodi impiantati direttamente nell’encefalo.
L’iter diagnostico prechirurgico è adattato al singolo caso. Su 100 pazienti candidati e sottoposti a indagini non invasive circa il 40-50% quindi accede all’intervento senza altri esami, e solo nel 5% l’intervento si rivela controindicato. Il restante 50-60% necessita anche alle indagini invasive. Il progressivo incremento delle attività del Centro, conseguente all’ampliamento delle strutture e alla naturale espansione, rende necessaria una rigorosa pianificazione e successione temporale delle attività, che coinvolgono contemporaneamente competenze specialistiche e strutture differenti. Anche nell’ambito di un medesimo ricovero infatti, il singolo paziente deve usufruire della degenza in ambito neurologico (Laboratorio Video-Stereo-EEG) e neurochirurgico, nonché degli studi diagnostici di molti laboratori, che devono essere coordinati e concentrarsi nel breve periodo in cui il paziente, sottoposto a riduzione farmacologia, presenta più crisi. Lo studio dei nuovi pazienti si sovrappone ai controlli dei pazienti già operati, intasando Laboratori e degenze. Per questo è necessario che la selezione dei candidati avvenga, per quanto è possibile, attraverso un accurato “screening” ambulatoriale che invii al ricovero “prechirurgico” i casi che hanno buone probabilità di risultare adatti alla chirurgia.