intervista con Giorgio Cruccu
Ci si può chiedere perché la FOREP si interessa anche di dolori. La risposta è semplice. Il dolore neurogeno, quello cioè che origina dalle vie e dai centri nervosi, soprattutto se parossistico, ha molti aspetti in comune con l’epilessia: la breve durata, il carattere esplosivo, l’andamento accessuale, l’imprevedibilità, tanto che per molto tempo si è creduto che fosse di natura epilettica. Oggi si sa che non è così, ma alcuni farmaci che stabilizzano le membrane delle cellule nervose e che si usano per curare l’epilessia sono efficaci anche nei dolori neurogeni.
Da che cosa è prodotto il dolore?
Il dolore viene percepito quando il cervello riceve, dalle vie nervose che provengono dalla periferia, l’informazione che i recettori dolorifici sono stati attivati. I recettori dolorifici (distribuiti in tutto il corpo) segnalano che nel loro territorio i tessuti sono esposti a una fonte di possibile lesione, affinché il cervello prenda provvedimenti. Il dolore è in effetti un senso utilissimo, che serve a prevenire o limitare danni (i pazienti in cui il sistema di trasmissione del dolore non funziona rischiano lesioni gravissime, soprattutto i bambini, che non hanno potuto sviluppare un’adeguata comprensione delle fonti di pericolo).
Quando non sono possibili manovre di allontanamento e i recettori dolorifici continuano a essere attivati, il cervello filtra i segnali dolorifici, smorzando l’intensità del dolore. Purtroppo questo filtro fisiologico ha un’efficacia limitata e bisogna allora ricorrere all’apporto di terapie analgesiche.
Che cosa sono i dolori neurogeni?
Patologie di qualunque natura (traumi, tumori, emorragie, infarti, infiammazioni) possono causare dolori neurogeni se coinvolgono direttamente le vie di trasmissione del dolore, nei nervi periferici, nel midollo spinale o nell’encefalo. La lesione può “irritare” le fibre dolorifiche, rendendole ipereccitabili o causandone direttamente una attivazione abnorme. Oppure può distruggere le fibre dolorifiche; in questo caso inizialmente si produce un’anestesia dolorifica (il paziente non percepisce correttamente gli stimoli dolorifici). Ma in seguito la degenerazione delle fibre nervose determina la denervazione dei neuroni successivi nella catena di trasmissione (per esempio se si taglia il nervo periferico si denervano i neuroni sensitivi del midollo) e questi possono diventare a loro volta ipereccitabili, oppure essere reinnervati da fibre sensitive “sbagliate”, dando luogo ad attività abnorme che, giunta al cervello, viene percepita come dolore.
In ogni caso, in tutti i dolori neurogeni il segnale non viene generato a livello dei recettori ma nelle vie dolorifiche; non possiede perciò alcuna finalità difensiva, ma costituisce solo una fonte di sofferenza.
Quali sono i principali tipi di dolore neurogeno?
Dal punto di vista delle sensazioni spiacevoli avvertite dal paziente (e anche dei meccanismi che le provocano) si possono dividere in due gruppi: dolori parossistici e dolori costanti. I dolori parossistici sono generalmente dovuti a scariche lungo fibre nervose irritate. Il più tipico e frequente esempio di dolore parossistico è la nevralgia trigeminale: il paziente avverte, nella zona di distribuzione di una o più branche del nervo trigemino (cioè nel viso o nella bocca), sensazioni improvvise e brevi, a tipo fitta o scossa elettrica. I dolori costanti invece sono generalmente dovuti alla perdita di fibre nervose. Il paziente avverte un dolore costante o subcontinuo, mal definito o con carattere di morsa o di bruciore.
I più comuni dolori neurogeni sono quelli secondari ai danni traumatici del nervo, alla neuropatia diabetica, all’herpes zoster (il “fuoco di Sant’Antonio”), ad alcune patologie della colonna vertebrale e del midollo, alla sclerosi multipla, agli esiti di un ictus cerebrale (“dolore talamico”).
Come si diagnostica il dolore neurogeno?
Spesso al neurologo basta ascoltare il paziente che sappia descrivere le sensazioni che avverte, perché queste sono di solito molto diverse dai dolori più comuni (per esempio quelli del mal di testa o della lesione di una articolazione): il paziente riferisce infatti sensazioni di bruciore o di freddo, punture di spillo, scosse elettriche improvvise. In altri casi un’accurata visita può evidenziare disturbi delle sensibilità o disestesie (sensazioni strane, spesso fastidiose, indotte dal tocco o strofinio della pelle).
A volte, tuttavia, il paziente sente solo che il dolore è forte, ma senza sensazioni qualitativamente definite, e il neurologo non trova alcun difetto nella visita clinica. Bisogna allora ricorrere alle indagini strumentali.
Quali sono le indagini strumentali che aiutano la diagnosi di dolore neurogeno?
Prima si eseguono esami funzionali, di tipo neurofisiologico, che possono evidenziare la disfunzione nelle vie sentitive e localizzare il punto, nel percorso dalla periferia al cervello, in cui essa si trova: l’esame elettroneurografico (ENG), i riflessi nocicettivi (spinali e trigeminali), i potenziali evocati somatosensoriali (SEP) e soprattutto i potenziali evocati laser (LEP). Una volta dimostrata e localizzata la disfunzione sensitiva, gli esami morfologici, e in particolare la risonanza magnetica, possono chiarire la natura della patologia (cioè se la causa prima è stato un accidente vascolare, un’infiammazione o un tumore, eccetera).
Cosa sono i potenziali evocati laser?
Si tratta dell’esame più sensibile per valutare la trasmissione dolorifica. Il fascio laser può essere diretto su qualunque parte del corpo (tranne gli occhi). Un breve impulso eccita esclusivamente i recettori dolorifici, che inviano segnali al cervello, e il soggetto avverte una piccola sensazione di puntura o di leggero bruciore a seconda di come viene regolato l’impulso laser. I segnali vengono registrati da elettrodi di superficie posti sul capo, gli stessi che si usano per l’elettroencefalogramma. Diversamente da questo, però, non si vuole osservare l’attività spontanea del cervello, bensì l’attività evocata dallo stimolo laser, che ha percorso tutta la via dolorifica. Utilizzando la capacità dei calcolatori di sommare il segnale nervoso prodotto dallo stimolo e di eliminare il rumore di fondo, si evidenzia il “potenziale evocato”: un piccolo segnale elettrico generato da strutture profonde, al centro del cervello. Se vi è qualche disfunzione lungo la via dolorifica, questo potenziale appare alterato.
Nel corso degli anni il dolore si attenua o peggiora?
Innanzi tutto molti dolori neurogeni possono essere definitivamente eliminati, quando se ne può rimuovere la causa (per esempio decomprimere un nervo o il midollo schiacciati). Alcuni dolori neurogeni si risolvono spontaneamente (per esempio con la conclusione di una patologia infettiva). In molti casi, però, il dolore è cronico: non se ne possono combattere le cause e il dolore è destinato a persitere per tutta la vita. In qualche caso il dolore tende molto lentamente a peggiorare, ma più spesso non si attenua né peggiora. Molto dipenderà dall’atteggiamento piscologico del paziente.
I giovani e gli anziani sono soggetti ugualmente?
La maggior parte dei dolori neurogeni cronici intrattabili riguardano la media e la terza età; in particolare la nevralgia trigeminale, la nevralgia postherpetica e i dolori dopo ictus cerebrale di solito affliggono pazienti ultra sessantenni. Le neuropatie e mielopatie dolorose e la sclerosi multipla possono manifestarsi a età variabili. Sono rari i casi di dolore neurogeno negli adolescenti e nei bambini.
C’è qualche segnale d’allarme che può anticipare una crisi dolorosa?
Diversamente da molte crisi epilettiche, non vi sono segnali d’allarme. Ma molti pazienti imparano che il dolore può essere scatenato da ben precise manovre e imparano anche ad evitarle. A volte sono fonte di dolore certe posizioni corporee o il contatto con alcuni indumenti, lavarsi, asciugarsi, i soffi d’aria, mettere o togliere i cosmetici, radersi. In alcuni pazienti con nevralgia trigeminale la crisi dolorosa è scatenata dalla pronuncia di alcuni suoni: nei periodi di maggiore acuzie della nevralgia i pazienti imparano a parlare con cautela, muovendo poco la bocca e cercando di evitare certe consonanti.
Perché i normali analgesici non funzionano su questi dolori?
Esistono centinaia di prodotti commerciali dotati di azione analgesico-antiinfiammatora, qualcuno un po’ più efficace nei dolori ossei o muscolari, qualcuno più efficace nel mal di testa o nel mal di gola. Tutti, però, hanno un meccanismo d’azione simile: contrastare le sostanze che si liberano nei tessuti infiammati e che rendono ipersensibili i recettori dolorifici. Dal momento che i dolori neurogeni si originano direttamente lungo le vie di trasmissione, l’azione periferica sui recettori non può dare alcun giovamento. È quindi del tutto inutile passare dall’uno all’altro nella vana speranza di trovare quello giusto. Gli analgesici narcotici, come la morfina, agiscono direttamente sul sistema nervoso centrale. Per motivi non del tutto chiariti sono però scarsamente efficaci sulla maggior parte dei dolori neurogeni.
Si può curare il dolore neurogeno?
Si può curare e qualche volta guarire. Ove possibile bisogna cercare di combatterne le cause (per esempio curare meglio il diabete, o eseguire interventi chirurgici volti a rimuovere compressioni benigne, ecc.) Quando non si possono combattere le cause si può comunque lenire il dolore, con farmaci specifici, terapie fisiche o interventi chirurgici.
I farmaci efficaci per i dolori neurogeni sono gli stessi farmaci usati per la cura dell’epilessia o della depressione.
Alcuni antiepilettici sono indicati nei dolori parossistici, a scossa elettrica o fitte improvvise, in cui si ipotizza un’origine del dolore lungo fibre nervose irritate, perché stabilizzano l’eccitabilità della membrana nervosa o rinforzano i meccanismi inibitori. La carbamazepina, per esempio, è il farmaco di prima scelta nella nevralgia trigeminale.
Nei dolori costanti e nelle disestesie, la perdita di fibre è seguita da rimaneggiamenti anatomici irreparabili. Alcuni antidepressivi sono in questo caso l’unico aiuto, attraverso un potenziamento dei meccansimi naturali di controllo-filtro di cui il sistema nervoso centrale dispone per ridurre il dolore costante. Il beneficio deriva proprio dalla interferenza con la trasmissione centrale del dolore e non dall’effetto antidepressivo, perché questi farmaci, a dosi inferiori a quelle antidepressive modificano la soglia al dolore e la sua tollerabilità anche nell’animale. L’amitriptilina, per esempio, è il farmaco di prima scelta nei dolori costanti-brucianti in corso di neuropatia diabetica o di herpes zoster. Alcuni pazienti non si lasciano convincere e rifiutano il farmaco (“serve per curare i matti, ma io il dolore lo sento veramente”); bisogna allora fare capire al paziente che l’effetto analgesico è indipendente dall’azione antidepressiva.
Ci sono terapie non farmacologiche?
Alcune terapie fisiche sono di aiuto. L’elettrostimolazione transcutanea antalgica (TENS) consiste della stimolazione del territorio dolente con impulsi elettrici di bassa intensità ed alta frequenza, che producono un’intensa sensazione di vibrazione. La sensazione vibratoria maschera il dolore. Si può impiegare quando il territorio dolente è accessibile e non troppo esteso. L’effetto scema rapidamente dopo la sospensione dello stimolo, per cui il paziente deve munirsi di un piccolo stimolatore portatile, in modo da poterlo accendere al bisogno. Nei casi più gravi e intrattabili esiste anche la possibilità di impianto chirurgico di elettrodi stimolanti direttamente nel cervello.
Alla chirurgia distruttiva (un tempo si pensava di eliminare il dolore tagliando via –letteralmente– le vie dolorifiche) purtroppo fa seguito una disfunzione dei neuroni a valle che determina dopo pochi mesi il reinsorgere del dolore, con caratteri sempre peggiori. Al giorno d’oggi si effettuano solo interventi sulla radice trigeminale o sulle radici spinali, per il trattamento delle nevralgie, atti chirurgici che sono solo parzialmente lesivi. Nel caso specifico della nevralgia trigeminale questi interventi sono di facile esecuzione e danno solitamente ottimi risultati.
Quanto incide la volontà del paziente?
Nei casi di dolore cronico intrattabile, i casi più sfortunati che rispondono poco o nulla alle terapie, l’atteggiamento psicologico del paziente è di grande importanza. Non la volontà, in quanto il dolore c’è e il sentirlo non è questione di buona o cattiva volontà.
Tuttavia vi sono persone che non si riescono a rassegnare. Non credono possibile che la scienza medica non sappia risolvere il problema. In questi casi il paziente continua a girare da un centro all’altro, in una inutile spirale di indagini e tentativi terapeutici. Il dolore e il miraggio della sua soluzione diventano il centro della vita, l’unica cosa importante. Ogni altra attività o ogni altro interesse sono cancellati, con il conseguente deterioramento emotivo. Andranno infine affidati allo psichiatra.
Altre persone, invece, riescono a farsene una ragione. Anche loro vorrebbero che il dolore scomparisse, ma nel frattempo si accontentano di piccoli miglioramenti, cercano sollievo nel divergere l’attenzione sull’attività fisica e sul lavoro. Questi pazienti possono essere aiutati nelle fasi iniziali con l’inserimento in programmi di fisiokinesiterapia, tecniche di rilassamento, training autogeno.
Il pubblico conosce tutto quello che si può fare per curare il dolore?
La fisiopatologia dei dolori neurogeni è una materia complicata anche per gli stessi medici; di conseguenza non è sempre facile impostare la terapia corretta. Come nel campo dell’epilessia, nuovi preparati farmacologici sono in fase di sperimentazione clinica e solo gli esperti del settore ne conoscono le potenzialità e i rischi.
A chi ci si può rivolgere per saperne di più?
Oltre che agli esperti della FOREP, si possono contattare l’Associazione Italiana per lo Studio del Dolore (AISD) e il Gruppo di Studio Neuroscienze e Dolore della Società Italiana di Neurologia.